martedì 25 marzo 2014

Quella vampira snob.



La vampiro-mania dilaga al cinema (e in libreria), occasione di mettere in scena – con un mix di fantasy e sentimentalismo – i dilemmi giovanili. Saghe ad uso e consumo del box-office.
Forse questa moda ha smosso i nostri pigri editori: La vampira snob (Baldini & Castoldi, 2014, traduzione di Laura Sgarioto) è un libro appena uscito in Italia, scritto dall’ungherese Szécsi Noémi nel 2002, e oggi una delle più brillanti penne della letteratura ungherese.
Il titolo originale, Finnugor Vámpír (tradotto per il pubblico inglese in The Finno-Ungrian Vampire), trae ispirazione dalle lingue ugro-finniche, dove il genere grammaticale non esiste e così un nome può essere sia maschile che femminile.
Il racconto è un’esilarante satira, opera d’esordio con cui la Szécsi esplora con ironia le nuove possibilità del gotico. È la storia di Jerne Voltampère che vorrebbe sottrarsi alla tradizione di famiglia, incarnata da una nonna vampiro, e scrivere favole per bambini. Vengono trattati "con disincantata leggerezza e sano cinismo temi attuali come l'appartenenza a categorie quali genere e nazionalità, il rapporto tra uomo e donna e il disagio dei giovani verso il mondo".

La figura del vampiro non appartiene al folklore ungherese, quindi rari sono i racconti che ne parlano. Il precedente storico più noto è l’attore ungherese Bela Lugosi (vero nome Béla Ferenc Dezső Blaskó), nato nel 1882 a Lugos (oggi Lugoj in Romania), celebre per il personaggio del Conte Dracula nei film horror americani degli anni ’30.
Il racconto è stato selezionato per la prestigiosa “Notte della Letteratura Europea” nel 2012 in Gran Bretagna, mentre il secondo romanzo della Szécsi (finora ne ha scritti quattro) ha vinto il Premio per la Letterature dell’Unione Europea nel 2009.
Ci sarà occasione di incontrarla dal vivo a Venezia, in cui dal 2 al 5 aprile si svolge il Festival internazionale di letteraturaIncroci di Civiltà”, dove per la prima volta è presente l’Ungheria.
Venerdì 4 aprile (ore 9,30) all’auditorium S. Margherita la docente di letteratura inglese, nonché scrittrice, Michela Vanon Alliata, introduce il tema “le geografie del gotico”, con un dialogo tra la Szécsi e la giovane scrittrice inglese Naomi Alderman, appassionata di nuove tecnologie e ideatrice e sceneggiatrice di videogiochi.

Il Festival, che accoglierà 22 scrittori provenienti da diciassette Paesi da tutto il mondo, è un’occasione speciale per un pubblico di appassionati lettori di incontrare una molteplicità di esperienze, lingue, culture e generi. Tra gli altri ospiti: Carlo Petrini, Massimo Carlotto, Jhumpa Lahiri, Sergej Stratanovskij, Daniel Mendelsohn, Rita Dove, Rhea Galanaki, Salwa Al-Neimi, Caryl Phillips, Ge Fei.

lunedì 24 marzo 2014

Il “grembo di luce “ di Katinka.



“Spiritualità corporale” è l'ossimoro che mi suggerisce la lettura delle poesie di Borsányi Katinka, dense di religiosità.
Ma, una seconda lettura rivela un codice di rappresentazione che trascende la forma assunta dal suo linguaggio poetico. La figura simbolica di un Dio maschio appare come il centro di gravità che consente di sfuggire alla forza centrifuga della caducità umana, espressa dalla fragilità dell'uomo (anzi, in questo caso, della donna) e dal suo insondabile inconscio.
Un vitale sentimento di mistico eroismo, venato dalla malinconia per le proprie radici: questo percepisco nei versi di Borsányi, che - anche se non appartengono alle mie corde – mi comunicano qualcosa di condiviso.

Ma chi è Borsányi Katinka?
L'ho conosciuta alla commemorazione del 15 marzo ungherese (la rivoluzione del 1848). A Milano, il console Manno István e la parlamantare ungherese Ékes Ilidiko hanno ricordato gli ideali di libertà, che affratellarono italiani e ungheresi. Poi hanno dato prestigiosi riconoscimenti all'avvocato Giovanni Bana e al regista Gilberto Martinelli. Ma prima hanno dato spazio a Borsányi Katinka che, con un'interpretazione piena di pathos, ha letto alcune poesie. È stato naturale per me darle una copia del mio libro di proverbi ungheresi. Pochi giorni dopo mi ha spedito il suo primo libro di poesie: Grembo di luce (Albatros Il Filo, 2011), che commento sopra.
Ho poi scoperto che Borsányi - nata nel '75 a Budapest, laureata in italianistica e studiosa di magiaristica - da quindici anni vive in Italia ed è una promotrice culturale della lingua e della cultura ungheresi in Italia. In ciò la sento vicina, poiché - pur con molta meno competenza - da un anno mi cimento nel ruolo di “mediatore culturale” tra italiani e ungheresi.
Nel 2009 Borsányi ha anche scritto, in ungherese, una sorta di diario sulla sua esperienza italiana, Venétföldi levelek (lettere della terra veneta).
Raramente scrittori o poeti rendono giustizia alle loro opere nella lettura. Invece, Katinka ha rivelato doti interpetative fuori dal comune; mi auguro che il suo messaggio appassionato raggiunga, con la parola scritta ma anche con quella declamata, un pubblico più vasto.

lunedì 17 marzo 2014

Quanti casi ha l’ungherese.



Perché non c’è ordine nelle frasi in ungherese?
Una delle prime difficoltà degli italiani nel comprendere la lingua ungherese è l’apparente disordine della frase.

Effettivamente, nelle lingue dotate di casi (un suffisso aggiunto al nome che identifica se è il soggetto o ha un altro ruolo) l’ordine delle parole è in linea di massima libero.
E l’ungherese ha ben 17 casi (almeno)! Il finlandese ne ha 15, il latino 6 e il tedesco 5.

Una normale frase italiana si costruisce secondo lo schema SVO: soggetto, verbo, oggetto. L’oggetto in genere è necessario per completare la frase: in questo ruolo, i nomi rientrano nella categoria dei complementi (ungh. határozók) e, se indiretti, sono retti da una parola indipendente: la preposizione (elöljárószó). L’italiano ha 9 preposizioni semplici: a, con, da, di, fra, in, per, su, tra. Quando si uniscono agli articoli determinativi (sing.: il, lo, la; pl.: i, gli, le), le preposizioni diventano articolate.

Nella lingua ungherese, invece, il suffisso sostituisce la preposizione (se questa è accompagnata da un avverbio, in ungherese si usa la posposizione, névutó). I diversi ruoli del sostantivo in una frase (mondat) costituiscono le categorie dei casi.  Il caso (eset) si identifica attraverso una desinenza o suffisso attaccato dopo la radice nominale (szótő) del sostantivo.
La tabella scaricabile esemplifica la declinazione (ragozás) di un sostantivo nei principali 17 casi (compreso quello nominativo, senza suffisso; con i casi “discutibili” si arriva a 26). Nel suffisso la vocale varia (alta o bassa) secondo la regola dell’armonia vocalica (v. post del 23 dicembre ’13).
Non c’è corrispondenza univoca tra caso e complemento, anche se a volte si verifica: il caso nominativo è il soggetto; l’accusativo è il complemento oggetto; il dativo è il complemento di termine ed è uguale al genitivo, che è il complemento di specificazione; inessivo, adessivo e superessivo corrispondono ai complementi di stato in luogo; ablativo, delativo, elativo a quelli di moto da luogo; allativo, sullativo, terminativo, a quelli di moto a luogo; lo strumentale a quelli di compagnia e di mezzo.
Però, ci sono varie eccezioni. Ad es.: “vivo in Italia”, ungh. az Olaszországban élek; ma “vivo in Ungheria”, ungh. a Magyarországon élek.


Anche se l’ungherese non ha uno schema di costruzione della frase, ci sono delle regole. Se si vuole mettere l’accento su un nome (enfatizzare), questo va posto subito prima del verbo, il resto è libero (mantenendo in gruppo le unità sintattiche; es.: articolo-aggettivo-sostantivo) e, se fatto di una lunga serie di specificazioni, in ordine inverso rispetto all’italiano. Altrimenti lo schema comune è quello SOV: soggetto, oggetto, predicato. Da ricordare che in genere il soggetto, se è un pronome personale (io, tu, egli/lui/lei/esso, noi, voi, essi/esse/loro; ungh: én, te, ö, mi, ti, ök), si omette, poiché la coniugazione del verbo identifica già la persona (1°, 2° o 3°, singolare o plurale).

Troppo complicato? Allora, sapete quanti complementi ha la lingua italiana?
Quelli principali sono 26 e, considerando quelli secondari, si superano i trenta. Non esistono i casi, tranne 2 (nominativo e accusativo/dativo) per i pronomi personali.
L’ungherese ha perciò ha una grammatica più semplice (lo vedremo anche per i verbi in un prossimo post).
In conclusione, premesso che non ha senso chiedersi se una lingua è più difficile o facile di un’altra (può essere più vicina o lontana, quindi più o meno facile da imparare), si può dire che la grammatica ungherese (magyar nyelvtan) è meno complessa e più regolare (e regolata) della grammatica italiana (olasz nyelvtan).

NOTA sui suffissi
I suffissi (toldalékok) si possono suddividere in due categorie.
Il suffisso formativo (képző), che si aggiunge subito dopo la radice nominale e ne cambia morfologia e significato; ad es: kert (giardino), kertész (giardiniere), kertészet (giardinaggio).
Il suffisso flessivo, suddiviso in due sottocategorie:
-         marca (jel), che si aggiunge dopo la radice (e l’eventuale suffisso formativo), e ne modifica il significato (es.: plurale, possessivo, comparativo, ecc.) ;
-         flessione (rag), che è il suffisso sintattico segna-caso e va sempre a fine parola (es.: accusativo); ce ne può essere uno solo, diversamente da képző e jel, che possono essere più di uno.
Quindi gli eventuali suffissi necessari vanno aggiunti alla radice nominale in quest’ordine:
-         szótő + képző + jel + rag

Ecco degli esempi di suffissi flessivi che un sostantivo (főnév) acquisisce nei vari casi grammaticali (il trattino “-“ serve solo a evidenziare la parte aggiunta).

a kívánság
il desiderio
a kívánság-ok
i desideri
a kívánság-ot
il desiderio (caso accusativo; in italiano: complemento oggetto)
a kívánság-ok-at
i desideri (caso accusativo; in italiano: complemento oggetto)
a kívánság-om
il mio desiderio
a kívánság-om-at
il mio desiderio (caso accusativo; in italiano: complemento oggetto)
a kívánság-ai-m-at
i miei desideri (caso accusativo; in italiano: complemento oggetto)

Nell’ultimo esempio, dopo la  szótő (kíván), abbiamo un képző (-ság), due jel (-ai e -m) e un rag (-at). In ungherese l’articolo è uno solo: a (az se davanti a vocale).

I suffissi seguono sempre sostantivi, aggettivi e pronomi, ad eccezione dei pronomi personali, i quali non prendono suffissi. In quest’ultimo caso, i suffissi stessi – usati come parole indipendenti (senza varianti) – prendono i suffissi personali possessivi: così essi esprimono sia la persona e sia la relazione sintattica (v. tabella dei pronomi personali e del possessivo)invece, seguono la regola generale i pronomi personali formali: Ön/Maga, Önök/Maguk (Lei e Loro).

-          Tabella dei casi

lunedì 10 marzo 2014

Memoria. “Succede un ‘48”.





Petőfi Sándor legge il poema Nemzeti dal 
alla folla, disegno  Zichy Mihály (wikipedia)
Le rivoluzioni europee del 1848 hanno lasciato un segno anche nel linguaggio quotidiano.
In Italia si dice “succede un quarantotto” per descrivere una situazione caotica che porta scompiglio, alludendo alle rivolte di quell’anno.
In Ungheria si dice “nem enged a negyvennyolcból” (non cede dal ‘48) per descrivere chi non recede dalle proprie posizioni, alludendo alla tenacia delle rivendicazioni di quella rivoluzione ungherese.

Insomma, “la primavera dei popoli” - com’è ricordata quella stagione di rivolte nazionali contro il nuovo ordine imposto nel 1814 dai sovrani assolutisti (Restaurazione),  dopo la sconfitta della rivoluzione francese e le guerre napoleoniche – ha aperto un nuovo cammino di autodeterminazione.
Italiani e ungheresi furono affratellati da questa lotta per la libertà (v. post del 27 maggio ’13 sulla Battaglia di Magenta).

L’Italia, dopo altre guerre, conquistò l’indipendenza (1861).

L’Ungheria non ci riuscì, ma ottenne un’ampia autonomia dalla monarchia asburgica con una riforma costituzionale (1867) seguita a un accordo di compromesso (ungh, Kieyezés, tedesco Ausgleich)

Anche se tale stagione rivoluzionaria è partita dall’Italia (in gennaio scoppiò la rivoluzione siciliana), gli unici ricordi rimasti sono in qualche monumento o nella toponomastica (a Milano ci sono Piazza 5 giornate e Corso XXII marzo).
Invece, in Ungheria il 15 marzo 1848 è una delle tre feste nazionali, nemzeti ünnep (v. post 8 luglio ’13). Sembra la festività civile più sentita e condivisa: la festa delle rivoluzione del 1848 (1848-as forradalom ünnepe), ricordata anche come “la primavera gloriosa” (a dicsõséges tavasz).
Tale ricorrenza viene festeggiata anche a Milano (quest’anno è il 65° anniversario) dalla comunità italo-ungherese: una commemorazione organizzata dal Console ungherese, Manno István, si svolgerà presso la Pinacotaca Ambrosiana il 15 marzo alle ore 10.

Ecco altre ricorrenze del 2014 per gli ungheresi:
-          10° anniversario dell’adesione dell’Ungheria alla Unione  Europea,
-          15° anniversario dell’adesione dell’Ungheria alla NATO,
-          25° anniversario della caduta della cortina di ferro,
-          70° anniversario dell’Olocausto in Ungheria,
-          100° anniversario dell’inizio della Grande Guerra,
-          bicentenario della nascita di Miklós Ybl, celebre architetto ungherese.

Inoltre 120 anni fa moriva Kossuth Lajos (1802-1894) - il “Mosè ungherese”, guida della rivoluzione del 1848 - che visse in esilio a Torino gli ultimi anni della sua vita.

Ed ecco la prima strofa del poema Nemzeti dal, con cui il poeta Petőfi Sándor infiammò gli animi dei magiari nel 1848.

Nemzeti dal
Talpra magyar, hí a haza!
Itt az idő, most vagy soha!
Rabok legyünk vagy szabadok?
Ez a kérdés, válasszatok!
A magyarok istenére

Esküszünk,
Esküszünk, hogy rabok tovább
Nem leszünk!

Canto nazionale
In piedi, o magiaro, la patria chiama!
È tempo: ora o mai!
Schiavi saremo o liberi?
Scegliete!
Al Dio dei magiari
giuriamo,
giuriamo che schiavi
mai più saremo!
(trad. di Silvia Rho)

domenica 2 marzo 2014

Proverbio/detto ungherese del mese (1011).



Aki másra bíz valamit, azt nem érdekli igazán (chi affida ad altri qualcosa, non gliene importa veramente). Equivalente italiano: chi vuole vada, chi non vuole mandi, usato per sottolineare che chi vuole ottenere qualcosa deve agire in prima persona (altrimenti farebbe la figura del menefreghista).
Il Giusti (1809-1850), che lo cita nel suo Dizionario dei proverbi italiani, aggiunge due equivalenti: non v’è più bel messo che se stesso; quel che tu stesso  puoi e dire e fare, che altri il facci mai non aspettare. Nella stessa categoria di proverbi su “ozio e lavoro” se ne trovano altri simili: chi vuole presto e bene, faccia da sé; comanda, e fai da te; chi per altrui mano s’imbocca, tardi si satolla.
Ma quello ancora molto utilizzato nel linguaggio quotidiano è: chi fa da sé, fa per tre.

In apparente contraddizione con queste massime, troviamo un proverbio spesso usato nel linguaggio politico e sindacale: l’unione fa la forza (ungh. “egységben az erő”). Il Giusti ne cita un antenato: tra fili fanno uno spago. Una metafora simile la usò l’autorevole sindacalista della Cgil Giuseppe Di Vittorio (1892-1957): per spiegare a un contadino dubbioso l’utilità dell’azione collettiva, spezzò un rametto davanti ai suoi occhi; poi legò insieme più rametti e li consegnò chiedendogli di spezzarli al contadino, che naturalmente non ci riuscì.

Come in questo caso, succede di imbattersi in proverbi che sembrano affermare il contrario l’uno dell’altro. In realtà, sono entrambi validi, ma in circostanze diverse.
Ecco perché serve un pizzico di saggezza in più di quella suggerita da un proverbio: l’arguzia di comprendere se è adatto alla circostanza.