giovedì 30 ottobre 2014

Da Bibó a Sartre: una testimone del ’56.

Gigliola, affezionata follower di questo blog, e di cui ho raccolto una testimonianza nel post del 20 ottobre ’14 sull’”indimenticabile ‘56”, aggiunge altri particolari sulla sua esperienza, che pubblico integralmente.







Devo rettificare, pur ringraziandola, il suo accenno a me, che semplicemente partecipai, con quasi metà della classe, alle manifestazioni per l’Ungheria, incurante di certi volti imbarazzati o immusoniti che vedevo ai lati della strada e di qualche imprecazione seguita dal grido “viva l’armata rossa!”, oppure – a scuola – di qualche rimbrotto o sarcasmo di alcuni insegnanti da sempre in vena di proselitismo.
In una di quelle sere di nebbia passai per la via, solitamente piuttosto frequentata, dove aveva sede l PCI. Era quasi deserta, solo qualche finestra illuminata. Ma dal palazzo di fronte, a finestre aperte nonostante il freddo, scendeva una cascata di note suonate al pianoforte: era una “polonaise” di Chopin, quella chiamata Rivoluzione. Era stata infatti l’antica amicizia tra Polonia e Ungheria, con ancora l’eco della rivolta operaia di Poznan in giugno, ad accendere ancor più il desiderio di libertà non solo degli studenti e degli intellettuali, ma della società ungherese nella stragrande maggioranza (i Consigli operai lottarono fino a fine novembre). A casa, dopo il giornale radio da tutti ascoltato con grande partecipazione emotiva, mi sincronizzavo sui 550 MHz di Radio Budapest, disturbatissima, ma da cui sentivo ripetere spesso tre o quattro parole, che poi – studiando la lingua – ho individuato come: “Itt szabad Kossuth radió” poi “Figyelem! Figyelem!”. Non capivo nulla, ma almeno mi sentivo partecipe.
La mattina all’alba del 4 novembre sentimmo al giornale radio la notizia dell’attacco a Suez e dell’attacco a Budapest, seguito dall’appello di Nagy, poi dalla musica grave e solenne dell’Inno nazionale.
In quelle stesse ore un uomo, rimasto solo nel palazzo del Parlamento assediato dai carri armati sovietici, stilava un documento rivolto all’Onu per denunciare quanto stava avvenendo. Entrò una truppa di soldati russi. Lo videro, ma cedettero che fosse un qualsiasi impiegato e continuarono l’occupazione dell’edificio.
Quell’uomo, rimasto al suo posto di ministro del governo Nagy, era Bibó István, poi arrestato e condannato all’ergastolo, poi liberato con amnistia mi sembra nel ’63.
Di quell’amnistia tuttavia beneficiarono soprattutto le personalità più note anche all’estero, come lo scrittore Déry Tibor, mentre moltissimi rivoltosi restarono incarcerati. Per questi Bibó scrisse una lettera da far pervenire a Jean Paul Sartre tramite un poeta francese amico. Cercò a lungo chi potesse assumersi la responsabilità e il coraggio di portare a lettera in Occidente e un giorno d’estate giunse con il figlio e la nuora a Sajkod, a casa del suo amico, il grande scrittore Németh László. Quasi certamente Bibó aveva saputo, da Németh stesso o da qualcuno della famiglia, della presenza di una persona fidata, un’italiana che in quei giorni era ospite dello scrittore. E l’italiana, giunta la sera, fu avvicinata con un pretesto dalla nuora che, lontano dagli altri, le chiese se sarebbe stata disposta a rischiare, chiedendole di leggere bene la lettera prima di accettare e di darle una risposta a Budapest, prima di partire. L’italiano non esitò.. e l’impresa riuscì.
Lei, caro József, ha certamente già capito tutto [la persona fidata era Gigliola, ndr]. Putroppo Sartre non scrisse e non disse mai niente. Di tutto questo scrisse anni fa su Micromega lo storico Federigo Argentieri, autore di L’ottobre ungherese e La rivoluzione calunniata, uscito anni fa come supplemento – pensi un po’ – dell’Unità, poi rieditato da Reset. Con Argentieri non ho più rapporti da anni, ma è uno studioso preparato sulla rivoluzione. A proposito: il regime la chiamò ellenforradalom (controrivoluzione), poi az 56-os események (i fatti del ’56) e poi qualcuno osò un sajnalatos  események (deplorevoli eventi).

La mia rettifica per l’accenno a me fatto nel suo articolo riguarda l’incomprensione e l’isolamento che mi sarebbe stato inflitto. No, per la semplice ragione che bisogna appartenere a qualcosa per essere isolati e io non sono mai appartenuta a nessuna formazione politica, tantomeno comunista, ma chi mi conosce sa che rispetto le opinioni altrui come esigo che siano rispettate le mie.

Mi ritrovo nella conclusione del suo articolo e riconfermo il mio ideale di libertà, per il quale sono lieta di aver fatto qualcosa. Tutto qui.

mercoledì 22 ottobre 2014

Perché v’interessa l’ungherese?

Sabato prossimo 25 ottobre (ore 11), presso la biblioteca comunale di Corbetta (MI), presenterò la raccolta di proverbi ungheresi per l’ottava volta (l’elenco è alla pagina del libro).
Di solito i presenti mi accolgono con meraviglia sincera (a volte, maliziosa), chiedendomi perché mi interessa proprio la lingua dei magiari e la loro cultura.
Questa volta vorrei invertire i ruoli e chiedere al pubblico cosa li spinge ad ascolatre qualcosa sull’ungherese. Forse il Mal d’Ungheria? Forse i racconti piccanti di qualche turista in cerca di facili avventure? Forse la curiosità per un Paese europeo con una lingua non indo-europea?
Vorrei dunque scavare su cosa già sa un pubblico normale sull’Ungheria e sugli ungheresi. Solo luoghi comuni (e pregiudizi), o anche storie vere di persone, oltre che di un popolo?
Vedremo.
Chi ci sarà potrà ottenere il mio libro bilingue scontato (e, se lo desidera, firmato), appunto Affida il cavolo alla capra. 1001 proverbi e detti ungheresi (Keckére bízza a káposztát. 1001 magyar közmondás és szólás).
Chi non potrà esserci, potrà comunque pensare a un originale regalo di natale, acquistando il libro su Youcanprint.it con lo sconto del 25% fino al 31 ottobre; basta scrivere sul codice sconto: PROMO25.

Intanto ho scoperto che la platea degli interessati all’ungherese è più vasta di quanto pensavo. Infatti, se questo blog in un anno è mezzo ha superato le 12mila visualizzazioni (da 50 Paesi nel mondo, anzi ora da 51, con l’arrivo dell’Australia), la piattaforma social collegata – quella di Google+ – ha superato addirittura quota 60.000!
Mi scuso con chi mi ha scritto su questo social network, cui finora non ho risposto perché poco pratico di questa piattaforma, molto utilizzata invece da chi naviga di meno sul Pc e di più sui nuovi dispositivi mobili. Quindi, d’ora in poi, seguirò gli interessati all’amicizia italo-ungherese anche su Google+.

lunedì 20 ottobre 2014

Indimenticabile ’56.

Budapest: accanto alla statua di Nagy Imre.
Giovedì prossimo in Ungheria é festa nazionale (nemzeti ünnep), in memoria della rivoluzione ungherese del 1956 (október 23-ai forradalom emlékére), cominciata a Budapest il 23 ottobre con una manifestazione studentesca. Si puó leggere su wikipedia un’adeguata ricostruzione di quegli eventi (e del contesto internazionale: la guerra fredda; la destalinizzazione dell’Urss; la crisi di Suez).

Per capirne qualcosa in più, ho raccolto qualche testimonianza di quel periodo. La mia impressione é che il trauma di allora non sia del tutto superato e che le sensazioni provate 58 anni fa siano ancora presenti nell’animo di chi visse quella ventina di giorni di insurrezione contro la soffocante presenza sovietica.

Julianna aveva 17 anni, studentessa impiegata in un’industria tessile a Kispest (quartiere sud di Budapest). Là non ci furono scontri, ma in fabbrica si formò subito un consiglio operaio e fu sciopero (durò fino a gennaio). A fine ottobre con un’amica provò a recarsi in centro, ma quando udirono spari tornarono subito indietro. Riprovarano a fine novembre e trovarono una devastazione simile a quella dopo una guerra. Un giorno la raggiunse un cugino, che le chiese di scappare in occidente con lui; Julianna rifiutó, riflettendo sulle parole di un poeta dell’Ottocento, Tompa Mihály: Szívet cseréljen az, aki hazat cserél! (Cambi cuore chi cambia patria). Non ebbe tempo di schierarsi contro o a favore degi insorti, aveva solo paura di non rivedere piú i genitori, che vivevavo nella provincia occidentale di Vas. Nagy Imre, il capo del nuovo governo socialista che accolse le richieste degli insorti, le era simpatico ma fu processato e giustiziato due anni dopo (dal 1989 é eroe nazionale).

Nándor aveva 18 anni e viveva in un piccolo paese del sud. Era figlio di una famiglia di minatori comunisti (che per lui significava lavorare duro per vivere). Per questa sola ragione, il comitato rivoluzionario del posto si preparava ad impiccarli. Poi arrivarono i soldati sovietici e tutta la familgia ebbe salva la vita. Anzi, Nándor ricevette nel Parlamento di Budapest una “medaglia al merito per operai e contadini”.

András nel ’56 era un bimbo di pochi anni e ricorda solo che i suoi genitori lo portarono in Italia. Seppe poi che, nel’45 alla fine della guerra, i suoi genitori scamparono alla prigione (e forse alla torture che i sovietici inflissero ai “collaborazionisti” dei nazisti negli stessi luoghi dove le “Croci Frecciate”, i nazisti ungheresi, torturavono fino a poco tempo prima gli oppositori al regime). Come? Grazie a qualcuno che li fece scappare da Budapest, assieme ad altre migliaia di persone compromesse col regime, attraverso una galleria sotterranea. Da anni András cerca di scoprire chi fu quel “salvatore” per onorarne la memoria ed é grato ai fatti del ’56 a seguito dei quali i genitori ebbero l’occasione di abbandonare un paese dominato – tra il 1948 e il 1989 – dal “socialismo di stato”.

L’italiana Gigliola nel ’56 aveva 19 anni. Attratta dalla cultura magiara, subito si schieró con i giovani ungheresi insorti. Ma – abitando nella regione piú “rossa” d’Italia (Emilia-Romagna),  allineata a Mosca – ciò le costò isolamento, incomprensione e anche insulti. Non perse peró la sua passione per l’Ungheria, che visitó spesso, ospite anche dell’amico scrittore Németh László.

Chi prevalse allora definí gli insorti “controrivoluzionari”. Pochi dissidenti nella sinistra europea  (un’eccezione in Italia fu il sindacato comunista, la Cgil) solidarizzarono con studenti e operai in rivolta; ma neppure da altre parti politiche dell’Occidente arrivó loro un sostegno concreto.
Dopo il crollo del Muro di Berlino nel 1989, nessuno piú afferma ciò. Anche il Presidente italiano Giorgio Napolitano (giá dirigente del Partito comunita italiano), che allora appoggió i carri sovietici, qualche anno fa si pentí di quella presa di posizione e onorò i caduti della rivoluzione ungherese del ’56.
Certamente c’erano in quella rivolta elementi diversi: anarco-sindacalismo, aspirazioni a una democrazia piena e a una neutralitá in un mondo diviso in blocchi contrapposti, fermenti di un socialismo democratico suscitati nell’Est Europa dalla destalinizzazione, e – probabilmente ma senza influenza – nostalgici del regime fascistizzante dell’anteguerra.
La storia sedimenterà l’essenziale, ma è utile raccogliere i diversi punti di vista (storie personali di protagonisti e di semplici spettatori). Alla fine il pubblico è il “canone”, cioè il metro di misura per valutare l’impatto degli eventi che cambiano il mondo.

Ció che ha reso indimenticabile quel ’56 del Novecento, accostandolo al ’48-’49 dell’Ottocento, é quella sorta di immagine tragica del popolo magiaro, quasi profeticamente intravista giá da Dante (Paradiso, Canto XIX): “Oh beata Ungheria, se non si lascia piú malmenare!” (Óh, boldog Magyarország! Csak ne hagyja magát félrevezetni már!).
Credo che il popolo magiaro susciti simpatia nel mondo perché é metafora delle minoranze oppresse sulla Terra: essere destinate alla sconfitta, salvo trovare poi ragione nella storia.


lunedì 13 ottobre 2014

Seuso-kincs torna in Pannonia.

Riproduzione grafica di Villa Seuso (Seuso palotája)
Il ritrovamento di un tesoro nascosto é spesso avvolto dal mistero, a volte diventa un ”affaire” (ügy) internazionale, fonte di reportage o teorie cospirative.
É il caso del ”tesoro di Seuso” (Seuso-kincs), in mostra da ottobre a gennaio a Székesfehérvár, capoluogo della provincia ungherese di Fejér. Si tratta di 7 pezzi di vasellame d’argento (la metá del tesoro originale, ma la collezione completa ne doveva contare oltre un centinaio), finemente decorati, risalenti al IV e V secolo d.C.
L’origine del tesoro é incerta, addirittura qualcuno ha parlato di un tesoro ”fenicio”. Cosí il suo possesso é stato conteso da Ungheria, Libano e perfino Croazia.
Il nome é quello che compare come proprietario nella scritta in latino che circonda il medaglione centrale di uno dei piatti, dov’é rappresentato un banchetto sulle rive del Pelso, l’attuale lago Balaton (HEC SEVSO TIBI DVRENT PER SAECVLA MVLTA POSTERIS VT PROSINT VASCVLA DIGNA TVIS,O Seuso che questi piccoli contenitori ti appartengano per molti secoli e servano degnamente i tuoi discendenti”).
Si pensa che i pregiati pezzi – tra i piú importanti della tardoantica toreutica (arte di lavorare i metalli in incavo e a rilievo) – siano stati prodotti dagli stessi artigiani che crearono un trappiede d’argento ritrovato nel 1873 presso Polgárdi (vicino al Balaton) e ora nella collezione del Museo Nazionale Ungherese.

Quindi tale tesoro é probabilmente proveniente dalla Pannonia, provincia a est dell’Impero Romano e attuale regione del Transdanubio (Dunántúl) nell’Ungheria occidentale.
Il tesoro era conservato in un calderone di bronzo (datato un secolo successivo), che lo ha preservato dall’ossidazione dopo che é stato nascosto forse per sottrarlo a qualche razzia (all’epoca i magiari non si erano ancora insediati nel bacino carpatico).

La storia che circola in Ungheria sul suo ritrovamento racconta di un giovane soldato (archeologo dilettante), Sümegh József, che l’avrebbe scoperto sepolto nella seconda metà degli anni ’70, ma non l’avrebbe comunicato alle autoritá statali per venderlo sul mercato illegale.
Nel 1980 Spencer Compton, 7° Marchese di Northampton, compró il tesoro da mercanti d’arte. Subito dopo, Sümegh (che aveva 24 anni) fu ritrovato morto impiccato.
Il tesoro ricomparve nel 1990 in un’asta di Sotheby’s a New York e si aprí un contenzioso legale a livello internazionale sulla sua proprietá.
Nel marzo di quest’anno il primo ministro ungherese, Orbán Viktor, ha annunciato che metá del tesoro é tornato ”a casa”, acquistato dal governo ungherese per 15 milioni di euro, per esporlo nel Museo Nazionale di Budapest (ma fino al giugno scorso era possibile visitarlo gratuitamente nel Parlamento ungherese). L’obiettivo dichiarato, con un qualche orgoglio nazionale utile in questo periodo elettorale (il 12 ottobre si é votato in tutti i comuni ungheresi), é di riportare in Ungheria anche i restanti 7 pezzi dell’”argenteria di famiglia”, ancora in mano a Lord Northampton .

Székesfehérvár – oltre 100mila abitanti, il nono centro abitato dell’Ungheria per dimensioni – é la cittá dove venivano incoronati i re ungheresi (Alba Regia). L’onore di ospitare il tesoro lo deve alle ricerche archeologiche, ancora in corso, della villa del senatore Seuso. Resti sono stati ritrovati nei pressi di Szabadbattyán, a metá strada tra Székesfehérvár e Polgárdi, nella stessa zona della scoperta di Sümegh (il piccolo borgo di Úrhida).
Il mistero pare quindi risolto, anche se il tesoro pannonico é ancora diviso.


mercoledì 1 ottobre 2014

Proverbio/detto ungherese del mese (1018).

Babonaságból fordítva veszi fel a harisnyáját, dalla superstizione mette le calze al rovescio. Più che un modo di dire questa espressione ungherese si riferisce a un’usanza scaramantica per scongiurare la malasorte.
La superstizione (babona) non mi sembra molto diffusa tra il popolo ungherese, tranne che nella forma della scaramanzia (ráolvasás). Una situazione simile al centro-nord italiano, mentre nel sud Italia le forme di superstizione (spesso mascherate da religiosità) appaiono più diffuse.
Tornando in Ungheria, se succede di indossare un vestito al contrario lo si lascia così, onde favorire la buona sorte. Nel sud Italia, invece, tale svista è premonitrice di un prossimo invito.
Un’altra usanza scaramantica ungherese è quella di dare una moneta a chi dona coltelli (possono ferire!) per scongiurare eventuali jettature. Usanza simile è diffusa in Italia, dove – quando si ricevono in dono fazzoletti (si possono usare quando si piange!) – bisogna “pagarli” simbolicamente con una moneta. Per non parlare poi degli innumerevoli “portafortuna” (szerencsehozó).

Non ci sono molte ricerche etnologiche su tali credenze popolari (considerare una cosa vera, senza evidenza reale, perché fa parte del “senso comune”) che, probabilmente, aiutano ad esorcizzare la paura di forze oscure che influenzerebbero il nostro destino. Tali credenze si diffondono oralmente e spesso si rintracciano nei riti religiosi o nelle favole; queste ultime hanno un’importanza notevole nella cultura popolare ungherese.
Rispetto a proverbi e modi di dire, il lato per così dire razionale e relazionale della “sapienza popolare”, le usanze sopra descritte rivelano invece il lato oscuro, irrazionale e nascosto, dell’agire umano. Non assegno un valore negativo a ciò, ma solamente ne sottolineo l’eccesso di razionalizzazione di chi non si rassegna all’inafferrabile “caso” (sors), ma ha bisogno di personificare gli eventi negativi (o quelli positivi) nello jettatore o nel demone maligno, oppure nella dea Fortuna (Szerence-istennő), illudendosi così di poterli combattere o blandire.
Forse è possibile tracciare un confine tra superstizione e scaramanzia, considerando la prima come l’assoggettamento completo a forze sovrannaturali insondabili, e la seconda come una forma di (auto)rassicurazione. Si tratta, in entrambi i casi, del tentativo di immaginare un qualche ordine in ciò che che appare solo come caos determinato dal caso. Piuttosto che accettare la legge (?) di quest’ultimo, molte persone preferiscono affidarsi al rassicurante (ma anche deresponsabilizzante) cieco destino (vak végzet).
Credere a cose di cui non è certa l’esistenza non è privo di conseguenze concrete (consapevoli o no): influenza, nel bene e nel male, la nostra percezione della vita e i nostri comportamenti, anche solo in forma di autosuggestione.

Questo mondo “altro”, abitato da forme di vita non umane (fate e folletti, ma anche sciamani e streghe ecc.), ci rimando l’eco di un immaginario simbolico pre-cristiano ed euroasiatico – nella cultura ungherese come in quella italiana – che sarebbe un peccato cancellare dalla memoria.

In ogni caso, se qualcosa va storto, si può incolpare la sfortuna, esclamando in ungherese Ez pech!, “Che jella!” (ma i giovani italiani dicono “che sfiga!”).